Uno degli effetti culturali più significativi degli anni del Covid, sebbene probabilmente solo catalizzato dal distanziamento sociale e dalla conseguente migrazione online delle relazioni, è il fiorire di narrazioni individuali di ‘storie di successo’, che persone e organizzazioni hanno usato per lanciare (o rilanciare) la propria carriera o comunque le proprie attività. Il fenomeno del personal branding, naturalmente non nuovo di per sé – almeno nelle società dell’economia capitalista – ha trovato nuovo pubblico (e quindi nuovi mercati) nella fase della storia recente, quella dei lockdown e della ‘vita da remoto’, in cui si sono avuti contemporaneamente il ripiegamento sul privato e l’apertura al resto del mondo tramite finestre social aperte in modo continuativo. Dagli aspiranti influencer che si autopromuovono con pagine motivazionali spesso piene di citazioni altrui (magari decontestualizzate o proprio errate) ai professionisti che vendono metodi infallibili per avere successo, da autori di saggi autopubblicati a ex-opinion leader in cerca di una nuova visibilità che li faccia ritornare in auge, non c’è modo di evitare – su qualsiasi piattaforma – i post sponsorizzati, o comunque suggeriti dagli algoritmi, di soggetti (individui ma anche organizzazioni) che fanno storytelling della propria vita e della propria esperienza, esistenziale e/o professionale.

Cosa hanno in comune tutte queste storie, nelle intenzioni sempre esemplari, educative e formative? Che devono risultare tali per chi legge (meglio, visualizza) e quindi devono avere un linguaggio fruibile da più utenti possibile, con l’effetto di una generale uniformazione del lessico, dei contenuti audio e video, ma in generale dello stesso messaggio veicolato. È una uniformazione del linguaggio a cui si trova costretto ad aderire anche chi di mestiere scrive per conto di figure pubbliche o aziende, i copywriter e i social media manager, con il risultato che siano difficilmente distinguibili i contributi originali alla conversazione online, appiattita com’è su una mediocritas che i partecipanti vorrebbero aurea (possibilmente in termini di profitto). L’altro effetto è che – non volendo alcuno dei partecipanti a questa conversazione online risultare da meno degli altri – ciascuno arricchisce il proprio contributo di aspetti (di nuovo) esemplari, educativi, formativi, poco importa se accresciuti rispetto al rilievo originario o se addirittura inventati. È dove il personal branding diventa vera e propria autofiction, termine che ha una dignità in letteratura, ma che in questo caso nobilita approcci allo storytelling non sempre trasparenti.

Ma come è possibile offrire ai propri clienti o potenziali tali uno sguardo nuovo, diverso da quelli mainstream, usando un linguaggio non standard, eppure suscitando la loro attenzione, il loro interesse? È possibile vincere la concorrenza di voci – spesso molto simili le une alle altre – che compiacciono l’uditorio con immediatezza e fruibilità, magari a discapito della veridicità delle affermazioni e della complessità del tema affrontato? È possibile gratificare il lettore di una fiducia maggiore di quella che altri ritengono meriti, anche solo proponendo contenuti che richiedano un attention span superiore alla durata di un reel o alla comprensione di un meme?

La scommessa sta nel problematizzare, nel saper lavorare sulle domande, più che sulle risposte, nel non semplificare a tutti i costi ma nel cercare chiavi di lettura nuove della complessità. L’approccio è quello della ricerca, evidentemente, un approccio che nasce da fiducia nei confronti dell’altro (a qualunque categoria di interlocutore appartenga) e che si sviluppa nel lavoro partecipato verso le soluzioni da adottare.

Che linguaggio corrisponde a un simile approccio? È una ricerca anche quella, che vuole andare al di là dei lessici più in voga, dal socialese di cui si diceva prima, al burocratese dei bandi pubblici, che contagia gli elaborati progettuali anche più sperimentali. Un lessico nuovo che non sia esoterico (patrimonio di una comunità di pratiche quasi iniziatica, come avviene in molti settori) ma nemmeno strumentalmente terra-terra (spesso al fine di attirare ‘di pancia’ l’utente). Una lingua nuova, che si scopre mentre la si usa, forse.

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