Riflettendo insieme a un’aula di amministratrici e amministratori di società cooperative su ciò che caratterizza il pensiero strategico, è emerso il nesso di questo con l’innovazione e con le sue diverse declinazioni.

C’è, com’è noto, l’innovazione di processo, caratterizzata dal fare meglio quello che di solito si fa per soddisfare i bisogni che sono la ragion d’essere dell’impresa (meglio nel senso dell’efficienza, ma anche nel senso dell’efficacia – ad esempio attraverso il coinvolgimento). C’è l’innovazione di prodotto/servizio, consistente nel fare qualcosa di diverso, di ulteriore, di migliore, per soddisfare bisogni nuovi oppure clienti nuovi. C’è infine la più difficile, l’innovazione di valore, che va a soddisfare bisogni nuovi di clienti nuovi: è qualcosa che cambia la stessa mission dell’impresa, è l’oceano blu (o inizialmente tale) di un mercato senza concorrenti.

Si tratta di innovazioni che l’imprenditore pratica (individualmente o – specie nelle società cooperative – collettivamente) avendo letto il contesto nel suo evolversi. L’imprenditore pensa queste innovazioni e ne estrapola obiettivi strategici, obiettivi che riguardano la clientela dell’impresa, ma anche la sua governance, il suo personale, la (o le) comunità in cui opera, lo stesso ambiente naturale che la ospita.

L’imprenditore (anche nella sua veste di amministratore di una società con una compagine sociale allargata a diverse istanze di stakeholdership) è dunque un innovatore sociale. Ma il termine sociale, si badi, non si riferisce allo svantaggio o allo stato di bisogno dei beneficiari delle iniziative dell’impresa, bensì alla società, all’intera platea dei portatori di interesse dell’impresa.

È lo stesso termine che appare al centro di due acronimi, CSR e ESG, che costituiscono, rispettivamente, il paradigma dominante nei primi vent’anni di questo secolo e quello emergente in questi ultimi anni, nell’interpretazione della capacità delle organizzazioni (tutte, non solo le for profit, ma nemmeno solo le non profit – quindi sì, anche quelle pubbliche) di perseguire la soddisfazione dei bisogni, attraverso una pianificazione strategica orientata all’efficacia prima che all’efficienza e un reporting significativo per tutti i portatori di interesse e non solo per gli investitori.

Ma questo sociale che appare centrale nell’elaborazione delle teorie e degli standard, rappresenta davvero qualcosa di concreto, vitale, ancorato alla realtà? Non è forse questa S onnipresente il tributo da pagare per essere riconosciute imprese responsabili, quando il vero focus dell’organizzazione rimane la massimizzazione del profitto, ove necessario compensando l’impatto ambientale? Un tributo fatto più di dichiarazioni di principio e di certificazioni, che di azioni con un impatto significativo sulle persone che compongono clientela, personale, catena di fornitura e rispettive comunità di riferimento?

Perché di questo stiamo parlando: della capacità dell’impresa di soddisfare tutti i portatori di interesse significativi, rispetto ai loro bisogni legittimi, bisogni che – è bene ribadirlo – danno ragion d’essere e senso (mission, purpose) all’organizzazione medesima. Il rischio (nelle imprese sociali aggravato dalla tendenza ad ammantare di retorica valoriale le proprie pratiche) è quello di dire e non fare, di lasciare che innovazione e responsabilità (naturalmente sociali entrambe) rimangano nei documenti aziendali e della comunicazione istituzionale, ma non nelle prassi.

Gli imprenditori sono tali se pensano politiche, se dettano obiettivi, senza lasciarne l’elaborazione al management o – peggio – allo staff consulenziale: una delle responsabilità – se non proprio quella principale – di chi fa consulenza sulle strategie è quella di favorire il pensiero, non di sostituirsi a chi di quel pensiero è attore principale. Perché la tecnocrazia (e quindi la standardizzazione delle prassi aziendali) tende ad atrofizzare quel pensiero, distaccandolo dalla realtà e contemporaneamente facendo perdere di vista l’orizzonte: lo scarto tra parole (responsabilità/innovazione sociale, impatto, sostenibilità) e realtà (produttività, margine, competitività) rischia di diventare incolmabile – e non ci sono certificazioni, report accattivanti, punteggi elevati nei bandi che tengano.

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