In questi mesi di uscita graduale e auspicabilmente definitiva dall’emergenza pandemica, molte sono le voci che si chiedono se e in che misura in questi oltre due anni si sia delineata una ‘nuova normalità’, oppure se sia possibile tornare alla normalità precedente. Tutte queste voci, che siano organiche al pensiero neoliberista o critiche nei suoi confronti in modo radicale – oppure ancora appartenenti a tutte le sfumature intermedie – convergono sull’esistenza, precedente alla pandemia, di una ben precisa normalità, basata sull’economia capitalistica e sul ciclo di lavoro–produzione–consumo come generatore di valore aggiunto per gli attori che vi operano (persone, organizzazioni, stati nazionali).
Questa normalità avrebbe mostrato, già da prima ma in particolare durante la pandemia, dei fallimenti a cui sarebbe necessario porre rimedio: l’iniqua distribuzione di quel valore aggiunto (il continuo approfondirsi del divario tra chi gode della ricchezza prodotta e chi ne è escluso, ma anche l’esacerbarsi della discriminazione verso intere fasce di popolazione per colore, genere, appartenenza etnica e/o politica), la crisi climatica (con la messa a repentaglio del benessere, della salute, della sopravvivenza stessa delle nuove generazioni), l’acuirsi di tensioni lungo le linee di confine più critiche della geopolitica (non a caso sfociato nell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia).
Rispetto al primo fallimento, in particolare, si registrano diverse esperienze di ricerca di modalità alternative di gestione dei processi di governo e di produzione del valore – alternative nel senso che provano a restituire ai diretti interessati il controllo delle decisioni e delle modalità di distribuzione, di fatto sottraendolo a soggetti esterni, che tendono a prosperare estraendo ricchezza da processi in cui non sono coinvolti in prima persona (quando anche il concetto di prima persona è discutibile, se pensiamo ad attori impersonali come i fondi della finanza globale).
Due testi sono usciti negli ultimi mesi, che raccontano questa ricerca. Le case editrici non potrebbero essere più distanti: da un lato, Malamente, casa editrice marchigiana specializzata in pensiero politico radicale, critica sociale, attualità e storia ‘popolare’; dall’altro, Egea, casa editrice dell’Università Bocconi.
La prima ha portato in Italia Mutuo appoggio. Costruire solidarietà durante questa crisi (e la prossima), di Dean Spade (avvocato, docente universitario a Seattle, attivista transgender), che è un manuale molto operativo (come solo certi saggi statunitensi sanno essere) di gestione di gruppi e movimenti, attraverso due modalità chiave: il sostegno reciproco tra i portatori dei bisogni e la ricerca (ostinata, militante) del consenso tra gli attori, per non affidare a soggetti esterni la soddisfazione di tali bisogni ma perseguire il benessere del maggior numero possibile di persone con il loro stesso apporto. Il concetto di mutual aid, molto vicino a quello di self-help, rende evidente – con l’aggettivo mutuo – il nesso con un approccio cooperativo alla governance delle organizzazioni. Un approccio – in questo caso – analogo a quello della cooperazione delle origini, che mette in atto una resistenza contro il sistema, percepito come oppressivo e sfruttatore, ma anche contro organizzazioni – come quelle che oggi in Italia chiamiamo di Terzo settore – che tendono a emulare lo scambio mercantile o la burocrazia statale in un eccessivo ingessamento pratico.
Egea invece pubblica Neomutualismo. Ridisegnare dal basso competitività e welfare, di Paolo Venturi e Flaviano Zandonai (che non hanno bisogno di presentazioni, e che con questo saggio chiudono un’ideale trilogia i cui primi due volumi sono Imprese ibride e Dove), dove troviamo modellizzato un mutualismo di segno diverso, non già improntato all’opposizione ai fallimenti di stato e mercato, quanto piuttosto alla creazione di impatto sociale, grazie alla dimensione digical (digitale + locale) dell’innovazione, che ha trovato una potente spinta – di necessità, durante la pandemia – dal fiorire delle piattaforme. Il nesso, approfondito nel testo, tra mutualismo, cooperativismo di piattaforma, coesistenza di fisico e digitale (in un’altra crasi, phygital), pluralismo della governance dei processi, è significativo di un approccio non resistenziale come nel saggio di Spade, bensì più improntato alla resilienza e alla trasversalità, quando non all’ibridazione (tra imprese for profit, pubbliche amministrazioni e enti del Terzo Settore) della generazione di valore per la comunità, quell’impatto che – per essere tale – deve essere incrementale e misurabile.
Probabilmente è nella misurabilità (criterio comune all’economia capitalistica e all’amministrazione pubblica) che va riconosciuto il discrimine principale tra i due approcci, pur nel comune richiamo al mutualismo e ai principi della cooperazione: se il mutuo appoggio si propone di superare definitivamente la dipendenza dalle metriche (esse stesse ritenute strumenti di controllo sociale), il neomutualismo si propone di definirne di nuove e più efficaci per misurare l’impatto comunitario di politiche, servizi e progetti.
Resta il dubbio che, assecondando (come è proprio della resilienza) le dinamiche capitalistiche, il neomutualismo possa essere solo una narrazione alternativa della nuova normalità e non un nuovo paradigma, come il mutuo appoggio si propone invece di essere.