L’ascesa delle piattaforme digitali, in quanto a significatività economica, è stata esponenziale nel corso dei primi due decenni del XXI secolo, per giungere ad occupare, a fine 2020, tutte le prime sette posizioni (Apple in testa) per valore di mercato dei Global 500 di Financial Times. Tutti – individui, famiglie, imprese, attori comunitari in genere – operiamo su piattaforme online per ragioni di studio, lavoro, svago, utilità, socialità, ogni giorno, per più ore al giorno, ancor più da un anno a questa parte a causa della pandemia globale. Operiamo come fruitori di contenuti e servizi, ma anche come acquirenti di beni, come produttori di dati e conferitori di informazioni, come lavoratori della conoscenza (retribuiti o meno) ma anche come lavoratori tout-court: nessuno può dirsi completamente off the grid, a meno di non seguire le orme di Henry David Thoreau nella sua vita solitaria nei boschi, descritta in Walden (teniamo però a mente questo titolo).
Ma cosa sono le piattaforme, dal punto di vista economico? Sono qualcosa che si colloca tra il mercato, il contratto, l’impresa, ma anche oltre essi. Sono ambienti in cui avvengono scambi economici, come i mercati e i quasi-mercati, sono reti che governano i rapporti tra produttori, tra acquirenti e tra gli uni e gli altri, sono lo sbocco principale o emergente dell’attività di impresa in qualunque settore. L’entusiasmo per la sharing economy, inizialmente il paradigma principale di lettura dell’attività delle piattaforme digitali – tutto improntato a partecipazione, democraticità, sostenibilità – si è progressivamente smorzato, con l’emergere della gig economy, che delle piattaforme ha fatto un modello caratterizzato quasi esclusivamente dall’estrazione di plusvalore, e dallo sfruttamento della manodopera precarizzata alla stregua di un proletariato digitale diffuso. La pandemia ha portato alla luce queste contraddizioni, esasperando i comportamenti di opinione e di acquisto online degli utenti e approfondendo i divari socio-economici tra persone e comunità, e oggi il dibattito sulla possibile riconquista a un uso cooperativo delle piattaforme è molto acceso.
La critica al funzionamento dei social network – portata avanti anche da coloro che li ritenevano possibili spazi di scambio paritario, per quanto conviviali e occasionali – ha mostrato quanto gli utenti non siano in realtà tali, bensì siano la merce degli scambi che avvengono tra operatori esterni a tali piattaforme. Questa deriva è stata resa possibile dal funzionamento degli algoritmi che presiedono alla proposta di contenuti delle principali piattaforme, basati su criteri che premiano le interazioni finalizzate a determinati comportamenti di acquisto. Comportamenti che sono determinati esternamente, eterodiretti e quindi non basati sul gusto, sulle inclinazioni – in una parola, sulla libertà di scelta – degli utenti.
Il padre del Comportamentismo, B. F. Skinner, scrisse nel 1948 un romanzo utopico dal titolo Walden Due (ispirato per certi versi proprio al Walden di Thoreau cui si faceva cenno prima), nel quale si immaginava una comunità basata sui principi del rinforzo positivo, che orienta i suoi membri alla felicità e alla pace – senza bisogno di leader né miti fondativi, senza controllo sociale né meccanismi punitivi – attraverso un’ingegneria sociale che propone spinte gentili verso comportamenti ottimali per il benessere di tutti. Si tratta di un romanzo utopico, il contraltare di 1984 di Orwell, peraltro pubblicato nello stesso anno, e – sebbene problematizzato lungo tutta la narrazione – il modello presentato è positivo, ragionevole, ammirevole nella sua semplicità. Eppure manca qualcosa perché Walden Due sia effettivamente una realtà cooperativa – allo stesso modo in cui le principali piattaforme online non possono dirsi in alcun modo cooperative. Non esiste, in Walden Due come nelle piattaforme, controllo democratico. C’è chi ha sostenuto che i social network in particolare siano delle gigantesche Skinner Box, ossia ambienti in cui i comportamenti sono premiati dagli algoritmi in ragione della coerenza con i consumi attesi – algoritmi che spingono gentilmente gli utenti verso temi, conversazioni, opinioni, e infine prodotti, che i veri operatori ritengono desiderabili. Inoltre, l’utente medio di una piattaforma non riceve un beneficio effettivamente proporzionato al suo apporto di dati: se si potesse valorizzare (e retribuire) questa attività di conferimento – sostiene Jaron Lanier in Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social – il protagonismo degli utenti e la cittadinanza digitale – immaginati fin dagli inizi del web – potrebbero davvero ritornare a governare le piattaforme online.
Se dunque le piattaforme vorranno ripensarsi in modo diverso da meri strumenti in mano a qualche big player del tardo capitalismo – e nello scenario corrente di emergenza sanitaria e climatica compresenti, questo è urgente – dovranno farlo in chiave cooperativa, attraverso un lungo lavoro culturale che – evidenzia Trebor Scholz, uno dei padri del platform cooperativism – deve fare riferimento a immaginari diversificati, e non solo ai grandi classici del mutualismo anglosassone, che rischiano di diventare miti incapacitanti.