Più che ‘cosa c’è di nuovo?’ dovremmo domandarci ‘cos’è nuovo?’, cos’è davvero innovativo nel contesto socio–economico attuale? Un contesto che – è ovvio notarlo – sta subendo mutamenti significativi, se non proprio traumatici, in questo 2020 caratterizzato dalla pandemia da Covid-19.

Gli analisti si dividono sommariamente tra quelli che sostengono che ‘nulla sarà più come prima’ e quelli che auspicano un ritorno alla normalità, in tempi più o me no brevi. Entrambe le categorie sono però accomunate dal non riuscire a immaginare un futuro, una configurazione di Stato, Mercato e Settore Non Profit, che si discosti radicalmente da quella pre-pandemia. Gli uni dipingono scenari apocalittici in cui il venir meno della tranquillizzante – sebbene thatcheriana – convinzione che non ci sia alternativa (all’economia di mercato) getterebbe nel caos la società, gli altri ancora convinti che il modus vivendi tardo-capitalistico potrà essere recuperato. Ma non è solo la pandemia a mettere in dubbio l’efficacia (e anche l’efficienza) del sistema in cui siamo abituati a vivere. I cambiamenti climatici che operano danni tangibili anche in territori che se ne ritenevano esenti, i movimenti di protesta nel cuore della società apparentemente più aperta e democratica, la messa in discussione – da parte dell’iperconnessione mediata da internet – dei modelli classici di produzione, lavoro e consumo, oltreché di partecipazione politica: tutte queste istanze prospettano qualcosa di nuovo, di emergente, di diverso. Di imminente.

Eppure, siamo davvero in grado di pensare questo ‘nuovo’? L’innovazione è sempre più open e sempre più social (sia nel senso di innovazione aperta mediata dai social, sia in quello di innovazione sociale aperta al contributo di tutti), la trasformazione digitale sempre più una necessità più che una scelta: ma che spazio c’è per un nuovo design della società, che non sia una ricombinazione di strutture e modelli apparentemente consolidati? Si può andare oltre una mera responsabilizzazione dell’impresa for profit, ad esempio?

Teoricamente si sarebbe dovuti passare dal paradigma della responsabilità sociale a quello dell’impatto sociale, ma la tentazione è quella di una riaffermazione del compassionate capitalism. Oppure, si può andare oltre la sussidiarietà, nei rapporti tra Stato e Terzo settore? La Riforma italiana punta alla co-programmazione, lascia spazio addirittura all’ibridazione, ma finora ha sortito solo inasprimenti della competizione nelle procedure ad evidenza pubblica. Le stesse organizzazioni non profit (ormai Enti del Terzo settore in Italia) faticano a pensare fuori della scatola dell’economia di mercato, perdendo sempre di più il legame con l’approccio al bene comune che li dovrebbe caratterizzare (e, per inciso, la logica dei commons è strettamente legata alla trasformazione digitale delle relazioni e degli scambi).

È necessario trovare luoghi in cui sviluppare cultura, conoscenza, pensiero – luoghi (più che spazi) in cui consolidare le competenze per immaginare e progettare una vera innovazione sociale, improntata alla generazione di valore condiviso e non alla redistribuzione di ricchezza, spesso a somma zero.

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