
Vi è mai capitato di essere nella necessità di trovare dei criteri quantitativi per misurare qualcosa che per abitudine pensiamo in modo qualitativo? La sensazione che ne deriva è di ingessamento. È una sensazione di limitazione delle possibilità di esprimere ciò che sentiamo che potrebbe meglio essere descritto da una narrazione, oppure da una metafora. È anche una limitazione ansiogena, perché induce la paura di uscire da confini prestabiliti o da percorsi obbligati, quasi fossimo su una scacchiera.
Chi conosce il funzionamento del sistema binario sa bene che ogni informazione (anche molto complessa, pensiamo a un prodotto audiovisivo) può essere rappresentata mediante una successione di 0 e 1, di pieno e vuoto, di bianco e nero, di bit discreti: è ciò che si intende con digitalizzazione della conoscenza, ossia con la trasformazione in cifre (digit) di ogni possibile informazione. Questa quantizzazione delle informazioni è ciò che sembra limitare la libertà di espressione di persone abituate a pensare in modo analogico, cioè a lavorare su uno spettro continuo di conoscenze.
La digitalizzazione della conoscenza è un fenomeno che supera i confini dell’informatica applicata ai processi aziendali (pensiamo ai sistemi di controllo di gestione, o ai panel di indicatori di performance produttiva) oppure a quelli di apprendimento (vedi i registri elettronici che calcolano automaticamente medie scolastiche di studentesse e studenti): in molti ambiti che ci troviamo ad attraversare, sia in ambito formativo che consulenziale, l’orizzonte di senso è quello della quantificazione come unica forma di misurabilità.
Due esempi. Le certificazioni volontarie sono sempre più caratterizzate da checklist e punteggi, che dovrebbero assicurare la conformità dei sistemi di gestione verificati ai requisiti delle norme tecniche di riferimento: il ruolo del consulente è sempre più quello di fare assessment successivi di questa conformità, al fine di rendere l’organizzazione compliant alla ‘sufficienza’ attesa – sempre meno quello di accompagnare il miglioramento e l’innovazione pensando ‘fuori della scatola’. La progettazione di percorsi di formazione continua (ma anche professionale, superiore o addirittura dell’obbligo) è oggi caratterizzata dalla necessità di riferire ogni azione – pensata per conseguire delle competenze – a specifiche aree di apprendimento, che parcellizzano e costringono il pensiero progettuale in imbuti obbligati: chi opera nella formazione non può che limitarsi a compilare o – al più – a comporre dei puzzle le cui tessere sono predeterminate.
Dov’è quindi l’innovazione in un quadro simile? È ancora possibile immaginare qualcosa del tutto nuovo? E soprattutto, per chi opera nella formazione e nella consulenza, ma anche nella ricerca: come fare per stimolare, nelle persone e nelle organizzazioni, una riflessione che sia di impatto – e non di miglioramento meramente incrementale – nei contesti in cui operano?
Come spesso si dice in questi casi, il mezzo è neutrale, il fine dipende dalle intenzioni di chi lo utilizza. Quindi sarebbe responsabilità di chi utilizza checklist, formulari e repertori l’orientamento di questi strumenti ad un fine creativo e innovativo. Resta il dubbio però che l’onnipervasività di questi strumenti improntati a metriche digitali condizioni anche il senso che si può dar loro, e atrofizzi in qualche modo la volontà, il desiderio, la stessa fantasia delle persone che li utilizzano.