Nell’ultimo anno, oltre alle problematiche legate ai processi e ai risultati, mi sono spesso trovata a riflettere con i miei clienti su cosa ci sia realmente alla base di tutto, su quale sia il nodo da sbrogliare.

In questo confronto la costante che sempre torna e riscontriamo è la capacità di creare squadra e agire come tale, non solo nei primi giorni di entusiasmo e motivazione, ma nel lungo periodo.

La capacità di abbattere quei muri tra reparti — tematica quanto mai presente anche nella cronaca nazionale e mondiale visto l’epoca che viviamo — e di avere in primis allenatori capaci di guidare pazientemente il team, insistendo costantemente sulle dinamiche di gruppo per portare i singoli a operare come un corpo unico. Allenatori capaci di superare paure e convinzioni personali per creare un ambiente fertile alla comunicazione, alla fiducia reciproca e al supporto delle capacità individuali verso un obiettivo comune.

Sull’entusiasmo di questa tematica, mi son trovata recentemente a guardare la serie Netflix The Last Dance, che racconta la straordinaria epopea dei Chicago Bulls tra il 1991 e il 1998, culminata in sei titoli NBA. La serie offre uno spaccato non solo sulle tre principali stelle della squadra — Michael Jordan, Scottie Pippen e (mio favorito) Dennis Rodman — ma soprattutto sul valore del lavoro di squadra e di cosa sia un vero leader.

Ciò che mi ha colpito maggiormente sono stati:

  • La grande umanità e lungimiranza di due allenatori chiave: Dean Smith, che ha formato Jordan da matricola, e Phil Jackson, che ha saputo trasformare i Bulls in una squadra inarrestabile.
  • La capacità di Jordan di evolvere da grande attaccante a uno dei migliori difensori della NBA, mettendo da parte il proprio ego, sviluppando visione di squadra, reinventandosi completamente e, insieme a Jackson, spronando i compagni ad allenarsi quotidianamente sulle triangolazioni e sul passaggio di palla.
  • L’abilità di creare una squadra coesa, capace di adattarsi e rinnovare la propria strategia. Di “vedere” i propri compagni, di passare la palla senza cercare il canestro in solitaria. Un gioco che somigliava a un’orchestra perfettamente armonizzata, senza solisti né battitori liberi. Questa disciplina mentale è stata essenziale per trasformare giovani giocatori, spesso esuberanti ed egocentrici, in un team vincente.

E qui arrivo al parallelismo con il mio lavoro, con i miei clienti e con la Lean. I suoi principi fondamentali — la centralità delle persone e le contromisure semplici ma efficaci di organizzazione e visualizzazione — offrono strumenti concreti per costruire squadre affiatate. Come l’approccio Lean ci sta permettendo di sviluppare nuovi linguaggi di comunicazione interni, andando oltre il classico verbale o la rigida formalità delle procedure.

Come la Lean ci sta aiutando nella creazione di sistemi visivi condivisi basati su colori, zoning e segnali, in modo che l’azienda non lavori per scopi diversi tra i reparti, ma con un unico canestro. Perché, se è vero che la produzione deve produrre, il magazzino prelevare e spedire, e il commerciale vendere, alla fine l’obiettivo è sempre lo stesso: la soddisfazione del cliente in termini di qualità, costi e tempi di prodotto e servizio.

E proprio come i Bulls di Phil Jackson, per arrivare ai risultati non basta avere talenti individuali: serve una squadra che parli lo stesso linguaggio e giochi con un solo obiettivo.

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