Mi è capitato recentemente di condividere alcune riflessioni sull’efficienza dei processi di consultazione, condivisione e decisione all’interno delle organizzazioni. Con particolare riferimento agli enti del terzo settore, si rileva spesso quale elemento di valore da salvaguardare quello della democraticità e partecipazione ai processi decisionali.
Tali valori devono trovare realizzazione nel modello organizzativo, cosicché le persone siano messe in condizione di partecipare attivamente e consapevolmente alle scelte organizzative ed esercitare in modo autonomo e responsabile il proprio ruolo. Spesso tale orientamento si traduce all’interno dei processi operativi nell’allargamento della partecipazione a riunioni e momenti di incontro, confronto e decisione.
Si ragionava sugli sprechi di tempo ed energie che a volte connotano questi momenti, i quali, in aggiunta, spesso peccano in termini di efficacia, perché vedono un alto grado di dispersione, una scarsa capacità di giungere alle decisioni o di raccogliere effettivamente contributi significativi dai partecipanti.
La fallibilità di questi momenti/modalità spesso porta a scegliere di restringere il gruppo delle persone chiamate a decidere perché possano procedere velocemente, puntualmente, entrando nel merito delle questioni con competenza. Parrebbe che o si allarga il processo a vantaggio del coinvolgimento e della partecipazione o lo si restringe vertiginosamente a beneficio di un processo decisionale più efficiente.
Processi decisionali partecipati e capacità di presa di decisione non sono due scenari alternativi.
L’allargamento del processo non esclude la successiva assunzione della responsabilità decisionale da parte di chi ha tale mandato dall’organizzazione. A fronte di un processo di raccolta e condivisione, il decisore finale avrà sicuramente più elementi interpretativi ed una riflessione più articolata su cui basare la presa di decisione. Nel migliore dei casi, poi, il processo partecipato potrà anche portare all’individuazione di una decisione condivisa e fatta propria dai partecipanti.
La partecipazione ha finalità diverse e necessita di modalità diverse. Se la partecipazione è orientata alla condivisione di informazioni oppure al coinvolgimento all’interno dei processi e della vita dell’organizzazione è una cosa; se si chiede ai partecipanti di portare il proprio contributo, allora le persone devono essere messe nelle condizioni di poterlo dare (informazioni complete sul contesto della decisione, tempo per prepararsi all’incontro, spazi strutturati di partecipazione, …); se si auspica una responsabilità diffusa e un progressivo trasferimento del potere decisionale su determinati ambiti operativi, l’intero processo dovrà essere gestito collaborando più o meno intensamente con i vari attori coinvolti (dall’analisi di problemi, alle alternative e possibili soluzioni, fino alle modalità di realizzazione finalità, nella gestione di tutte le fasi del processo).
Nelle realtà che incontriamo, molto spesso i momenti e gli strumenti ci sono e si tratterebbe semplicemente di utilizzarli al meglio. Assume, però, sempre maggiore rilevanza la capacità di guardare ai propri processi per chiarirsi le idee sulle finalità del coinvolgimento e sull’effettiva attribuzione della responsabilità e quindi del potere decisionale, rinunciando a simularne un esercizio collegiale quando le finalità e le necessità possono essere diverse.
Dal punto di vista delle pratiche organizzative quotidiane, quindi, il contesto dell’impresa sociale richiede la stessa cura in termini di progettazione dei processi, promozione di stili di leadership a sostegno dell’attivazione e dell’autonomia e sistemi di feedback, di qualsiasi altra impresa.