È un luogo comune piuttosto usurato ma molto diffuso quello secondo cui i giovani hanno perso la capacità di pensare il futuro, di immaginare scenari innovativi quando non rivoluzionari, di progettare il ‘mai visto prima’ – per cui devono fidarsi di quanto loro proposto (o imposto) dall’autorità, che è per definizione esperta, adulta, competente. Questo luogo comune è però una sorta di comma 22. Il Comma 22, nell’omonimo romanzo di Joseph Heller del 1961, è l’immaginaria, paradossale norma regolamentare a cui devono sottostare gli aviatori protagonisti della vicenda: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Un paradosso senza via d’uscita, che potrebbe essere parafrasato come “chi è giovane può progettare il futuro, ma chi progetta il futuro non è giovane”. La consapevolezza di un simile cul-de-sac sta conducendo sempre più giovani a forme di protesta e di manifestazione spontanea che sono caratterizzate dalla rivendicazione di spazi espressivi, di occasioni di avere ‘voce in capitolo’ e di possibilità di invertire la tendenza verso la catastrofe (ambientale e sociale insieme) che l’attuale ciclo economico di produzione–lavoro–consumo continua ad accelerare. Il mondo adulto (l’establishment politico-finanziario, il mercato del lavoro, la burocrazia amministrativa, ma anche le forme tradizionali e codificate di associazionismo) reagisce con un approccio paternalistico (mai termine fu più appropriato) che minimizza, quando non reprime, tali rivendicazioni, derubricandole a tratti di immaturità e di incoscienza (si pensi allo scandalo che certe iniziative di Ultima Generazione o di Extinction Rebellion hanno generato), o addirittura adombrando manipolazioni da parte di immaginari ‘grandi vecchi’. In nessun caso sono riconosciute alla popolazione giovane autonomia di pensiero e capacità di autodeterminazione: l’idea – pessimistica, improntata al controllo e non all’empowerment – è la stessa di un altro celebre romanzo, Il Signore delle Mosche, del premio Nobel William Golding. Lasciati a sé stessi, i giovani (ma in generale gli esseri umani) sono votati all’autodistruzione e all’annientamento reciproco, l’utopia si trasforma rapidamente in distopia.
Lo stesso concetto di utopia è problematico, perché spesso associato a un’autorità adulta che indirizza le sorti della comunità mantenendo in stato di minorità i suoi elementi più giovani, deboli o comunque esterni alla élite che la dirige. Nel testo in apertura alla nuova edizione di Utopia di Tommaso Moro (Timeo 2023), China Miéville fa notare come la stessa madre di tutte le insularità utopiche è il risultato di un ‘violento bottino imperiale’, perché l’isola di Utopia viene separata dalla terraferma con la costrizione al lavoro dei nativi da parte di un conquistatore straniero. Un altro grande classico della letteratura utopica, Walden Due del filosofo comportamentista B.F. Skinner, descrive una comunità immaginaria (ma all’origine di molte comunità intenzionali nella realtà) alla cui guida si alternano – a titolo volontario – degli amministratori che orientano le attività collettive sulla base dei principi del rinforzo positivo, senza problematizzare il fatto che il modello desiderabile di comportamento reciproco non venga mai discusso, men che meno dagli elementi più giovani della comunità.
Ma è davvero impensabile che esseri umani giovani possano prendere in mano le sorti del mondo in cui sono stati proiettati? È impossibile che – senza una ‘gavetta’ adeguata (e i criteri di questa adeguatezza sono definiti da adulti) – possano farcela da soli? Chi lavora nell’ambito della ricerca, selezione e valutazione delle risorse umane si sta scontrando con una resistenza, da parte dei più giovani, a essere inseriti in contesti da loro percepiti come non equi, e non più solo dal punto di vista economico. I giovani candidati a posizioni anche non di alto profilo si aspettano proposte non solo sufficienti a soddisfare i bisogni base, ma anche tali da consentire loro di ‘fare la differenza’: è un fenomeno che vent’anni fa si riscontrava solo nel non profit, dove – oltre un ‘gradino’ di sicurezza minima – gli incentivi alla permanenza nell’organizzazione sono prevalentemente non monetari e intrinseci. Oggi questo approccio lo si rileva in tutti i settori, quasi che sia il candidato a valutare l’organizzazione, e sulla base di criteri valoriali: se le organizzazioni non riescono a intercettare questo trend, e ad attrezzarsi con criteri di selezione coerenti – ma anche con proposte realmente attrattive – la difficoltà di coinvolgere persone giovani e motivate diverrà insormontabile. E non sarà colpa dei giovani, bensì delle organizzazioni con mentalità vecchia che non sanno mettersi in discussione.
Perché i giovani sanno trovare le risorse per affrontare il mondo, anche senza il controllo adulto o presunto tale: è recente il caso (invero straordinario) dei quattro bambini colombiani (la più grande di tredici anni, la più piccola di appena uno) sopravvissuti quaranta giorni nella giungla dopo essere scampati a un incidente aereo. Ma, senza arrivare a questi estremi, in un bel libro di Rutger Bregman, significativamente intitolato Una nuova storia (non cinica) dell’umanità (Feltrinelli 2020) si può leggere la storia dei sei ragazzi tongani che – tra il 1965 e il 1966 – vissero per quindici mesi su un’isola del Pacifico sulla quale erano naufragati, senza uccidersi a vicenda, ma anzi costruendo una comunità (certo non intenzionale) che dà un senso tutto nuovo e per nulla retorico al concetto di sostenibilità. Il libro di Bregman, che si apre con questo ‘vero’ Signore delle Mosche, si conclude con l’invito ad essere realisti, ma non cinici, perché ‘l’ingenuità di oggi può essere la concretezza di domani’.
Quindi è necessario essere prudenti a tacciare di ingenuità (o immaturità, o incoscienza, o tutte queste cose insieme) i giovani e le loro aspettative: ci stiamo negando uno sguardo nuovo sul mondo che è già presente.