“È essenziale che l’apprendimento permanente diventi una realtà per tutti poiché la crisi ha ulteriormente accelerato la trasformazione della nostra economia e delle competenze richieste. Oggi troppi adulti non partecipano all’apprendimento sul posto di lavoro e la pandemia ha ulteriormente ridotto le loro opportunità di farlo” Mathias Cormann – Segretario Generale OCSE
Dal rapporto Skills Outlook 2021 dell’OCSE, che indaga sul significato e sull’importanza della formazione continua (lifelong learning), emerge con forza la necessità che tutti i Paesi intensifichino gli sforzi per consentire alle persone di essere performanti in un mondo del lavoro in rapida evoluzione. Per quanto riguarda l’Italia, i dati ci dicono che una percentuale vicino all’80% delle aziende ritiene che la formazione sia un investimento a rendimento zero e che la maggior parte investe principalmente nella formazione obbligatoria o legata alle competenze base per lo svolgimento del lavoro. A questo quadro va aggiunto un alto grado di insoddisfazione sulla formazione ricevuta.
Le risorse umane sono il motore del valore e della redditività di un’azienda, che va manutenuto e motivato. La formazione riveste un ruolo importante in questo processo di autonomia, professionalità ed engagement del personale. Investire in formazione e creare quindi momenti per ampliare le competenze consente di dare nuovi strumenti per migliorare le performance e per non rischiare di veder sfuggire il capitale umano.
Se questi principi risultano naturalmente condivisibili, allora perché le aziende faticano ancora ad investire nell’apprendimento dei propri dipendenti? La risposta che mi sono data sta nel principio di scarsa cultura legata alla formazione, ovvero la capacità delle aziende di utilizzare la formazione come leva strategica per rispondere alle nuove sfide provenienti dall’esterno e per migliorare le performance. In questo articolo vorrei riflettere sul ruolo centrale del formatore nello sviluppo di tale cultura e cercare di capire quali possano essere i fattori che contribuiscono a quell’idea già citata che la formazione non sia un investimento.
Troppo spesso si dedica poco spazio alla fase di rilevazione dei fabbisogni che si concretizza in un breve colloquio con il responsabile delle RU e si formalizza in un “facciamo un corso di …” rischiando così di erogare un percorso che non sia realmente pertinente, che non aggiunga nulla di nuovo alle proprie conoscenze o che, nel peggiore dei casi, non siano poi spendibili a livello professionale. Se non stiamo parlando di corsi tecnici, i contenuti devono essere pertinenti e co-costruiti attraverso un’analisi reale dei bisogni delle figure coinvolte. Se si vuole sostenere una cultura in cui la formazione assuma un valore strategico, i soggetti che si occupano dei processi formativi devono entrare nel merito dei fini organizzativi che si perseguono con i vari progetti formativi.
Altro ostacolo alla cultura della formazione è quello delle modalità di erogazione dell’intervento foriera di contenuti di altissima gamma, ma che non si concentra invece sui partecipanti e sugli scambi comunicativi e relazionali e va quindi a perdere quelli che sono davvero le peculiarità e le necessità concrete. Il docente deve essere in grado di padroneggiare diverse metodologie e di riconoscere quelle più efficaci nell’attuazione degli obiettivi del progetto.
Infine, spesso viene sottovalutato, se non completamento tralasciato, l’aspetto della valutazione dell’intervento. E un questionario a fine corso non è sufficiente. Il formatore deve essere capace di sollecitare ed accompagnare le aziende a dotarsi di strumenti e metodologia di misurazione degli impatti del percorso a lungo termine.
In sintesi, per estirpare quelle retoriche che troppo spesso si sviluppano intorno al tema della formazione e per essere parte attiva nella creazione di una cultura della formazione, il professionista deve essere in grado di assumere il ruolo di “agente del cambiamento” in grado di plasmarsi sulle esigenze del cliente e non viceversa.