In questi giorni ho terminato la lettura di Vita Activa di Hannah Arendt, un saggio di teoria politica apparso con il titolo “The human condition” nel 1958.
Ho trovato questo testo interessante e attuale e mi sento di proporre alcune riflessioni.

In breve, Vita Activa presenta una concezione dell’agire politico come forma suprema delle attività umane. Hannah Arendt cerca, come ci dice Alessandro Dal Lago , una “definizione dell’identità umana (chi è l’uomo?) e la trova nella rivalutazione dell’agire”. Sempre con le parole di Dal Lago: “Hannah Arendt ha in mente dei tipi poco particolari, o meglio poco ordinari, di agire: “compiere grandi gesta e pronunciare grandi parole” (secondo il modello omerico), prendere la parola in pubblico (secondo l’ideale della polis), intervenire nella sfera comune (secondo l’ideale sempre proclamato ma praticamente negato della cultura politica moderna).” Questa visione non è una nostalgia per delle idealizzazioni inattuabili – chiaramente è difficile che qualcuno possa oggi vivere o parlare come faceva Achille – ma vuole essere d’ispirazione per la condotta del singolo e per le regole di funzionamento della comunità, che appunto devono incoraggiare il discorso e l’azione.
L’uomo dunque realizza le sue migliori qualità quando prende l’iniziativa, attuando o dicendo qualcosa in un contesto di relazione e rivelandosi come un attore che sale sul palco e interagisce con altri attori. In un contesto simile, di autentica pluralità, ogni azione o parola influenza lo svolgersi degli eventi, generando reazioni o altri eventi spesso imprevedibili perfino per lo stesso attore. Inutile dire che tale contesto, che Arendt chiama anche spazio relazionale, per funzionare in questa maniera deve essere mantenuto, preservato, se necessario ristabilito. Non mancano infatti esempi di una sua compressione o annullamento, non solo di matrice dittatoriale o tirannica, del resto, anche l’analisi che Hannah Arendt compie dei luoghi comuni della politica moderna (intesa come macchina amministrativa) è devastante e forse alla base del primato della burocrazia potrebbe esserci un cortocircuito fondamentalmente psicologico secondo cui essa e le sue procedure possono apparire rassicuranti per quanto del tutto inefficaci nella gestione dei veri rischi imprevisti o imprevedibili. Un esempio può essere visto nella reazione alla pandemia di Covid-19, basata nel primo periodo su fogli cartacei da compilare e da portare con sé come giustificazioni degli spostamenti.
Un tratto saliente dell’agire risiede infatti per Arendt nella sua imprevedibilità intesa come condizione della libertà nell’ambito di determinate regole e come facoltà di produrre conseguenze non calcolabili in anticipo.
Se pensiamo all’orrore della società moderna per l’imprevedibilità dell’agire, e alla distanza tra il modello di azione nella polis e il nostro orizzonte culturale attuale, la rivalutazione dell’agire di Arendt può sembrare una velleità romantica, ma è qui che si gioca la partita centrale sul futuro dell’uomo e del cosmo, in quanto il futuro dell’uomo sembra essere in bilico tra l’essere un soggetto attivo o un oggetto passivo di fronte al nascere del nuovo potere dell’intelligenza artificiale, mentre la paura per i rischi che comporta la libertà porta a mostruosità ben peggiori, come la compressione della libertà stessa e dei diritti, ma non solo.
Per dirla infatti con Dal Lago: “Proprio quando l’agire politico fu bandito dalla società moderna (e questa è in fondo la funzione che Hannah Arendt assegna la filosofia politica), alcune caratteristiche dell’azione (imprevedibilità, consequenzialità, irreversibilità) si trasferirono nel campo delle attività lavorative e produttive, come forme di un processo di manipolazione della natura e del cosmo infinito e senza senso. Non è la libertà dell’agire che minaccia l’ordine cosmico ma precisamente la sua scomparsa.
L’operare dell’uomo sulla natura, guidato da processi ciechi di produzione e consumo, porta alla distruzione irreversibile dell’ambiente e della società; paradossalmente possiamo essere efficaci ed efficienti nei nostri processi mentre ci dirigiamo verso la nostra rovina.
Il testo di Arendt chiama a una riflessione personale così come organizzativa: quanto spazio abbiamo o lasciamo agli altri per il discorso e l’azione? Quanto le nostre organizzazioni incoraggiano la partecipazione o la libera iniziativa?
In conclusione, con le parole di Arendt: “Per essere ciò che il mondo ha sempre rappresentato, una dimora per gli uomini durante la loro vita sulla terra, la sfera artificiale umana deve costituire uno spazio adeguato per l’azione e il discorso, per attività non solo del tutto inutili per le necessità della vita, ma anche di natura completamente differente dalle molteplici attività di fabbricazione, grazie a cui sono prodotti il mondo stesso e tutte le cose che vi sono.”
Secondo il pensiero di Hannah Arendt, un simile spazio assicurerebbe non soltanto la salvaguardia della vita biologica, ma anche le condizioni per una vita degna di essere vissuta

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